Ebbene sì, lo smart working è ancora sulla bocca di tutti, e stavolta c'è una novità. A quanto pare, il governo ha deciso di dare un incentivo economico a chi, nella Pubblica Amministrazione, continuerà a lavorare da casa. Certo, è sempre un piacere vedere che lo Stato si rende conto che lavorare da casa non è solo una scusa per stare in pigiama davanti al PC (anche se ammettiamolo, per qualcuno potrebbe essere un piccolo vantaggio extra).
Ma qui nasce la domanda che tutti ci poniamo: basteranno gli aumenti per farci accettare il fatto che il futuro del lavoro sarà, almeno in parte, dietro uno schermo?
Il grande mito dello smart working: lavoro o vacanza?
Per molti, soprattutto i più tradizionalisti, lo smart working è visto come una sorta di vacanza travestita da impegno lavorativo. L'idea che si possa essere produttivi senza l’occhio vigile del capo sulla spalla, per alcuni, è pura fantascienza. "Ma come fai a lavorare senza che nessuno ti controlli?", si chiedono gli scettici, come se il lavoratore da remoto fosse automaticamente un pigro incallito che passa più tempo a preparare il caffè che a fare riunioni su Zoom.
Eppure, i dati parlano chiaro. Lavorare da casa ha mostrato un aumento della produttività per molti settori, Pubblica Amministrazione inclusa. Meno distrazioni da chiacchiere inutili alla macchinetta del caffè, più concentrazione su ciò che conta davvero. Forse, il vero nemico dello smart working è proprio la nostra abitudine a misurare il lavoro in ore seduti alla scrivania, anziché in risultati.
Aumenti per i dipendenti pubblici: ma quanto cambierà davvero?
Gli aumenti previsti per chi farà smart working nella PA sono senza dubbio una buona notizia, ma ci viene da chiederci: è solo una toppa momentanea per un problema più grande? Perché se pensiamo di risolvere il futuro del lavoro solo con un assegno in più, beh, stiamo solo cercando di mettere una pezza su una falla che rischia di diventare una voragine.
Per molti lavoratori della PA, lo smart working ha rappresentato una vera rivoluzione. Ma la questione non è solo economica. La vera sfida è culturale: accettare che lavorare da casa non è un capriccio né un privilegio, ma una modalità di lavoro che può essere altrettanto, se non più, efficace di quella tradizionale.
Il vero problema: la paura del cambiamento
A ben vedere, ciò che spaventa davvero non è tanto lo smart working, quanto il cambiamento che porta con sé. L'idea che si possa uscire dal classico schema 9-17 in ufficio manda in tilt un intero sistema di abitudini e percezioni. E, si sa, cambiare fa paura. È lo stesso tipo di timore che ci faceva guardare con sospetto i computer quando sono entrati per la prima volta negli uffici: "Ma vuoi mettere con la cara vecchia Olivetti?". E ora, la stessa diffidenza si riversa su chi sceglie di lavorare da casa.
Dai “boomer” della PA ai millennial, il dilemma è lo stesso: riusciremo a fare il salto mentale per accettare che lavorare non è per forza sinonimo di essere presenti fisicamente?
Conclusioni: il futuro tra schermo e realtà
Gli aumenti previsti sono un piccolo passo verso la normalizzazione del lavoro a distanza, ma non risolvono il vero problema: l’evoluzione del lavoro richiede una rivoluzione culturale. E mentre la PA cerca di adattarsi, dobbiamo tutti capire che il lavoro, quello vero, non dipende da dove siamo, ma da come lo facciamo.
Quindi, cari tradizionalisti, preparatevi: il futuro del lavoro è dietro uno schermo, con o senza aumenti. Ma tranquilli, potete sempre continuare a fare finta che l’ufficio sia l’unico luogo dove si lavora sul serio. Per gli altri, benvenuti nel 2024.